Miasi

 


 

Il cigolio del motorino di Caste produceva un rumore quasi più assordante e penetrante del motore stesso. A fatica si muoveva tra le strade che portavano a Borgo Fiorenzio, abbandonate all'incuria e all'inevitabile deterioramento che condannarono anni prima la città stessa.

Rallenta, deficiente!”, urlò Andrea vedendosi per un istante cadere sull'asfalto dopo una curva presa quasi in derapata. In quell'attimo di distrazione Caste vide a stento la piccola voragine nel mezzo della carreggiata dentro cui stavano per finire. Per evitare la caduta andarono a sbattere contro una vecchia statua raffigurante una donna alata, danneggiandola. “Sei il solito coglione Caste!”, sbottò Andrea una volta rialzatosi da terra. “Ma stai Calmo Cartone, potevamo rimanerci secchi in quella buca del cazzo!”. La discussione non proseguì oltre quello scambio di rimproveri, la principale preoccupazione di entrambi era infatti rivolta a raggiungere Borgo Fiorenzio, trovare un posto tranquillo e bucarsi il prima possibile. Si rimisero in sella al cigolante motorino, noncuranti della putrida mano sbucata alla base della statua ormai distrutta. Appena sotto le macerie della figura un'insegna di ottone recitava “Hic dormit domina muscarum ”.

Plink...plink...

Il gocciolare di un vecchio rubinetto echeggiava in quello che era un tempo un appartamento open space di lusso, ora ritrovo preferito di Andrea “Cartone” Cerri e il suo amico d'infanzia Francesco “Caste” Vermigliani. All'interno del fatiscente appartamento Andrea si stava riprendendo dall'ultimo trip regalato da una scadente dose di eroina consumata diverse ore prima; nella sua testa martellava un dolore pulsante simile a quello che si potrebbe attribuire ad una ferita inflitta alle tempie da una pistola sparachiodi. Un pungente odore di urina e vomito trafisse i suoi già provati recettori nasali, regalandogli un'ulteriore sensazione di nausea che si aggiungeva al malessere gastrointestinale di cui già soffriva in forma cronica. Il materasso su cui era collassato dopo la spada della notte precedente era marrone stinto e puzzava come se fosse stato imbottito di merda. Un po'tutto quello che si trovava all'interno del palazzo era da anni in condizioni analoghe, come del resto tutta la cittadina circostante.

Il palazzo residenziale “Sei Torri” un tempo era il fiore all'occhiello del comune di Borgo Fiorenzio, una cittadina edificata per i dipendenti della locale fabbrica tessile ormai fallita da circa vent'anni. Come Andrea e Francesco, altri fallimenti sociali frequentavano la zona per via della riservatezza del luogo: il Borgo, infatti, era molto difficile da raggiungere anche in motorino. Una volante della polizia si sarebbe di certo impantanata a metà strada a causa dei terreni ampiamente dissestati. Di questa trascuratezza si poteva ringraziare l'esodo dei cittadini causato dalla crisi economica. Andrea, nonostante fossero passati anni, si ricordava ancora quanto bella fosse la città dove visse durante la sua infanzia prima della lunga serie di affidi familiari. Proprio dove ora vi è la palude più estesa di Borgo Fiorenzio anni prima c'era il parco giochi dove Lui e Francesco andavano a giocare dopo la scuola. Ogni volta che si rialzava da quel sudicio materasso la sua mente lo riportava a quei giorni; dal palazzone in cui passava i pomeriggi nella vacuità mentale intasandosi le vene con le schifezze più a buon mercato che riusciva a trovare osservava i verdi liquami che circondavano le strutture arrugginite delle altalene e degli scivoli. Un panorama che poteva riassumere in buona parte la storia della sua vita: sembrava la pittoresca metafora di un'infanzia felice poi deragliata nella tossicodipendenza. Andrea appoggiò i gomiti sulla traversa inferiore della finestra ed estrasse l'ultima sigaretta del suo pacchetto di Chesterfield. Prima di afferrarla con le labbra screpolate, liberò i suoi bronchi sputando un'abbondante sfera di catarro in direzione del vento, evitando così di lavarsi la faccia con il suo espettorato mattutino. Accese la sua sigaretta e ritornò a guardare la palude con aria distratta. Il cielo quel giorno era grigio e diffondeva la luce eliminando ogni sorta di ombra creando un'atmosfera colorata di tinte fredde. Distrattamente, Andrea fece cadere la sigaretta sfilatasi dopo un colpo di vento inatteso, la fissò cadere di un'innaturale velocità, quasi in planata. Non era sicuro di quanto fosse alterata la sua percezione dopo l'ultima notte, ma non sembrava fosse il vento a spostarla e quasi si convinse di aver fumato un aereo di carta senza rendersene conto. La cicca roteò e volò lungo tutto il piazzale del residence, in modo così vistoso da sembrare che volesse a tutti i costi essere seguita dallo sguardo di Andrea. Superò i cancelli, attraversò la strada ed entrò nell'area che un tempo delineava il confine del parco giochi. Si avvicinò alla casupola che conteneva gli attrezzi del giardiniere e fu afferrata da una mano che uscì all'improvviso dal groviglio di piante rampicanti che circondavano il piccolo fatiscente magazzino. Dopo la mano uscì, vestito con un blazer grigio, un distinto signore che aspirò abbondantemente il fumo dalla Chesterfield consumandola fino al filtro . All'apparenza si trattava di un uomo sulla settantina, molto magro con lunghi capelli bianchi che coprivano le sproporzionate spalline della giacca. Dal colorito giallognolo del viso e l'impressionante magrezza non sembrava godere di una salute molto ferrea: se fosse stato immobile su una panchina sarebbe facilmente sembrato morto da giorni. Gettò il filtro nella sbobba verde che lo circondava e alzò lo sguardo in direzione del residence, proprio verso la finestra dove Andrea era affacciato.

Hey, Cartone... Hai una sigaretta?”, disse Francesco ripresosi dal sonno oppiaceo. Il suono della sua voce fece per un secondo distrarre Andrea dalla misteriosa figura apparsa nella palude riportando la proprio attenzione all'amico appena svegliatosi.

Hey...No...Ho appena fumato l'ultima.”

E te la sei finita tutta tu, Cartone? Sei sicuro? Proprio sicuro, drogato del cazzo?”

Andrea si infilò d'istinto l'indice della mano destra dentro l'orecchio per bloccare l'improvviso acufene che attraversò per cinque secondi il suo cranio, acuto come il trapano di un dentista che erode lo smalto di un dente malato. Riportò l'attenzione alla palude per cercare l'inquietante figura appena vista ma non la ritrovò. Non vide nulla al di fuori della putrida bara che conteneva i resti della sua infanzia.

Senti un po' Caste, ma tu 'sti giorni hai mai visto nessuno laggiù vicino al parchetto? Un vecchio di merda che pare il nonno di coso, là... quello dei Metallica. Hai capito, no?”. Francesco ancora mezzo stordito si tolse la logora siringa rimasta inserita nel suo avambraccio dalla sera prima. La ripose in un astuccio per occhiali insieme ad un cucchiaio annerito e si alzò in piedi.

No, macchè. Ma lo sai che da queste parti non c'è mai nessuno... Chi cazzo ti sei visto? Qui girano solo stronzetti del liceo che vengono a farsi due canne ogni morte di Papa. Ma quelli, poi, si vedono solo d'estate.”, rispose Francesco sbadigliando teatralmente.

Ho visto un tipo, vestito bene. Un vecchio. Giù dietro al capannone in mezzo al pantano della palude. Proprio venti secondi fa, solo che ora non lo vedo più.”

Ah si? Un tizio vestito bene in mezzo al fango, alla merda e alle zanzare? E che stava facendo questo elegante gentiluomo?”, replicò sogghignando.

Fumava.”. Andrea realizzò l'assurdità di quello che aveva visto poc'anzi.

Allora già che ci siamo scendi giù e chiedigli un paio di cicche!”, disse Francesco ridendo tra i colpi di tosse grassa smossi dal diaframma addormentato. “A parte gli scherzi: prendi il motorino e vai in città a prendere le sigarette che siamo a secco. Ci sono cinquemila lire sotto il sellino ma portami il resto! Non provarci neanche a fregarli!”.

Andrea sapeva che Francesco non sarebbe mai andato in città, toccava sempre a lui andare a fare la “spesa”.

-Quel ciccione di merda non lo smuovi neanche infilzandolo con un forcone.-, pensò tra sé e sé.

Raccolse la sua giacca di jeans, guardò un'ultima volta fuori dalla finestra per convincersi di essere ragionevolmente lucido e uscì dall'appartamento duecentotrentasette del residence Sei Torri. La nausea ancora ristagnava nella sua bocca e il malessere generale che sentiva provocava una lieve sensazione di disorientamento. Dovette più volte aggrapparsi alle maniglie delle porte in corridoio per non dover rovinosamente cadere stampando così l'impronta del pavimento sulla sua fronte. Decise dunque fosse arrivato il momento di vomitare, anche se, vista la distanza dall'ultimo pasto, non ci fu un granché da rigettare. Si sentì leggermente meglio e proseguì con un passo più sicuro, fondamentale per affrontare le diroccate scale del palazzo ormai al limite del crollo, rigorosamente sprovviste di corrimano o ringhiere di qualche sorta. Per non rischiare degli più che probabili incidenti, Andrea cominciò a scendere molto lentamente appoggiando la spalla al muro grattando la toppa dei Bad Religion cucita sulla manica della giacca. Non essendoci alcun allacciamento alle forniture energetiche il vano scala era tanto buio quanto freddo, soprattutto in quel periodo dell'anno. L'appartamento duecentotrentasette si trovava al quarto piano del palazzo, il che significava affrontare otto rampe da una decina di scalini l'una. Ad ogni gradino il palazzo sembrava diverso, come se stesse sopraggiungendo la notte ad una velocità irreale. La cosa non destò particolare sorpresa ad Andrea in quanto abituato a non fidarsi appieno delle sue percezioni ma l'inquietudine che l'atmosfera gli provocava non poté ignorarla. Al terzo piano cominciò a percepire uno strano odore di vegetazione mista a uova marce, odore che non aveva mai sentito nel palazzo durante le precedenti sessioni “farmaco-ricreative” alle quali era solito intrattenersi con Francesco. L'acre fetore saturava il pianerottolo invadendo violentemente la bocca e il naso di Andrea procurandogli nuovamente una intensa sensazione di disgusto. D'istinto si tappò il naso e proseguì la discesa. Arrivato al secondo piano decise di accendere lo zippo per vedere meglio cosa avesse davanti a sé; cominciò a notare nuovi dettagli del palazzo, dimenticati o sfuggiti alla sua attenzione. Vide dello strano muschio verde circondare gli angoli del soffitto; una buona parte del pavimento, invece, era ricoperta da una superficie spugnosa simile ad una moquette verde, costellata da piccoli fiori viola e marroni. Le porte degli appartamenti non si riuscivano a vedere perché erano completamente ricoperte da piante rampicanti di colore verde scuro. Pensò che fosse veramente singolare non aver notato prima tutto quello schifo ma, dopotutto, non andavano lì certo per programmare una ristrutturazione. All'improvviso, una rana uscì da un buco scavato nel muro spaventando a morte Andrea e facendolo scivolare all'indietro. Lo sbilanciamento lo fece cadere di schiena contro gli affilati gradini alle sue spalle. Rialzandosi si rese conto di una cosa che non poteva essere in alcun modo reale: le scale alle sue spalle, il percorso che aveva appena compiuto per scendere dal quarto piano era completamente murato. Le scale dalle quali era arrivato fino a lì erano sparite, tramutate in una vecchia parete di mattoni arancioni dall'aspetto antiquato e segnata da quelle che sembravano tracce di unghie grattate e sangue rappreso. Una scritta impressa con una vernice spray nera al centro della parete recitava “NON ANDARE ALLA PALUDE”. Il panico salì fino ad annegare ogni pensiero razionale nella mente di Andrea, che bestemmiò rabbiosamente mentre batteva i pugni contro quella irreale parete.

Che cazzo... Che cazzo succede??!?”

Dai Cartone, non fare i capricci. Ora è più facile, no? Devi solo scendere. Inutile stupido bambino...

Ancora l'acufene. Fortissimo. Come un lunghissimo spillo che inesorabile penetra la membrana timpanica fino al centro del cervello. Il dolore fece nuovamente perdere l'equilibrio ad Andrea che non poté controllare la direzione della caduta: cadde proprio nel centro del vano scala finendo la discesa dei piani rimbalzando tra le ultime rampe. La caduta finì parzialmente attutita dallo stantio acquitrino del piano terra, completamente allagato. Il dolore di Andrea si sfogò in un pianto angosciante; l'incredulità per quello che stava vivendo era seconda solamente al dolore inflitto dalla frattura esposta del suo avambraccio. Si alzò a fatica in mezzo ai liquami che invadevano l'atrio del residence. Le scritte sulle insegne delle porte dove si sarebbe aspettato di leggere 'manutenzione' o 'reception' riportavano dei cognomi familiari ad Andrea. La confusione nella sua mente cresceva ad ogni informazione che recepiva, non sapendo più distinguere cosa fosse reale e cosa non lo fosse. Ormai rassegnato proseguì verso il portone del palazzo sul quale invece della scritta 'spingere' lesse 'Fabris'. Inevitabilmente fu portato a ricordare QUEL Fabris, la sua casa famiglia, quella punizione che gli infliggeva ogni volta che gli girava male. Il baule, quel maledetto baule. Quelle interminabili ore rinchiuso in uno spazio appena sufficiente a respirare senza cibo, acqua o luce, seduto sulle sue stesse urine e feci talmente a lungo da provocargli delle dolorose infezioni, proprio lì dove il bastone del vecchio Fabris lacerava le sue carni. Se lo meritava, diceva, perché era un inutile stupido bambino.

Barcollando sia per le ferite che per il disorientamento, uscì finalmente dalla porta del Sei Torri. Ciò che vide fu solo una immensa distesa paludosa circondare il palazzo. Il mondo era verde e puzzava di cibo avariato, solo un'infinita distesa palustre fino all'orizzonte. C'erano solo il residence, la palude e la capanna del giardiniere a una dozzina di metri da lui. Un rigolo di fumo uscì da una sterpaglia lì vicino, due putride mani aprirono un passaggio dal terreno facendo uscire l'uomo dai capelli grigi, ancora impegnato a fumare. Con passo incerto si avvicinò ad Andrea e ad ogni metro che guadagnava il suo viso da anonimo e sfocato si rendeva sempre più riconoscibile; ad ogni passo compiuto un dettaglio del suo volto veniva ricondotto a sbiaditi frammenti di memoria sepolti da anni. Arrivato ormai a mezzo metro da Andrea la sua identità fu chiara: era il vecchio Fabris. Davanti a lui. In carne ed ossa, a distanza di anni dalla sua morte. Il vecchio patriarca aprì la bocca per parlare, ma Andrea sentì solo un acutissimo ronzio vibrargli nella testa. Fece un passo indietro e cadde violentemente nella verde melma della palude. Non appena cercò di rialzarsi, vide le mani del Fabris chiudere sopra di lui il coperchio di un baule. Quel maledetto baule. Dove dovevano stare gli inutili e stupidi bambini. Grattò e spinse con tutte le forze, usando anche il braccio rotto nel tentativo di liberarsi. Non ottenne che dolore e frustrazione per quelle che potevano essere state ore giorni o settimane. Dentro quello strumento di tortura il tempo sembrava dilatato, infinito. Della luce attraversò un pertugio del baule che consentì ad Andrea di osservare all'esterno. La visuale gli fu subito familiare: si trovava fuori dalla porta della stanza dove era rintanato con Caste a bucarsi e, a giudicare dall'altezza, stava osservando la scena dal foro della serratura. Vide se stesso e Caste perdere i sensi dopo la spada. E Fabris, il vecchio Fabris era nella stanza dietro di loro, nascosto nell'ombra. Fece un passo in avanti verso la luce e si tolse la pelle dal viso come fosse una maschera di gomma. Si strappò via ogni centimetro di quella rugosa pelle rivelando la superficie squamata brillante e verdognola di un corpo dalle forme femminili con sembianze di insetto. La sagoma poteva ricordare una giovane ragazza di vent'anni, ma dal viso sporgevano delle mandibole a forma di tenaglie, gli occhi erano enormi, a mosaico, e dietro le spalle ali trasparenti piene di vene pulsanti la seguivano come uno strascico nuziale. Andrea continuò ad osservarla dalla serratura mentre si avvicinava al suo corpo privo di sensi. Trattenne a stento le urla quando la vide infilzare la sua schiena con quello che sembrava un aculeo che usciva dalle sue fauci. Lo estrasse, guardò verso il foro della serratura, verso di lui, come se lo stesse guardando in faccia, dispiegò le ali e uscì dalla finestra. Il baule si aprì di scatto al termine di quel terribile incubo; Andrea si ridestò da quella che sembrava un'accidentale caduta dalle scale. Il palazzo tornò improvvisamente ad avere un aspetto familiare.

Hey Cartone, che è successo? Sei caduto?”.

Francesco era lì davanti a lui, ridacchiando sulla situazione.

Oddio Caste, andiamo via! Andiamo via subito, cazzo!!!”.

Il viso dell'amico si incupì all'improvviso e con un macabro ghigno disse: “Perchè? Perchè ti comporti come un inutile stupido bambino?”.

Spalancò la bocca in modo innaturale e emise un incomprensibile e penetrante ronzio. La sua pelle si squagliò fino a rivelare le disgustose sembianze di una mosca antropomorfa. Colto dal terrore Andrea lo spinse d'istinto nel vano delle scale: la caduta durò quasi tre secondi e si arrestò con un rumore sordo che ricordava un colpo di un grosso batticarne. Si sporse dal pianerottolo e vide il cadavere del suo amico contornato da una pozza di sangue rosso vivo. Non era più una mosca, era il suo amico d'infanzia, era di nuovo Francesco Vermigliani, il Caste. Alla vista di quel corpo senza vita si sedette in lacrime sul bordo del pianerottolo, pensò all'incubo, alla donna insetto e al vecchio Fabris cercando di dare un senso a tutto quello che aveva vissuto. All'improvviso, un insopportabile prurito al braccio interruppe i suoi pensieri; cominciò a grattarsi violentemente incurante del dolore che si stava provocando. Si ritrovò pezzi della sua stessa pelle tra le dita e tra le carni scorticate un bagliore verde veniva riflesso da quello che sembrava essere a tutti gli effetti l'esoscheletro di un moscone. Ridendo istericamente corse a perdifiato verso la stanza dove l'incubo ebbe inizio e, senza nemmeno esitare, si buttò dal terrazzo. Lo stesso dove osservava nostalgico il parco giochi della sua infanzia.

Steso sull'asfalto, agonizzante per le fratture, sentiva vividamente il rumore di centinaia di larve che si facevano strada tra le sue membra. Una donna con sembianze da insetto osservava dalla palude la nascita della sua progenie.

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