In Una Notte Perpetua


Quella misera carcassa di coniglio selvatico sfrigola impercettibilmente sul debole fuoco che gli dèi mi hanno concesso di accendere nella foresta più umida che abbia mai attraversato. Credo che ci sarà ben poco per sfamarci entrambi.

Sono un nobile.” Eccole. Sono le prime tre parole che gli sento pronunciare. Cominciamo malissimo.

L'ho intuito dall'armatura, Ser...”

Ser Damien di Colle Dei Draghi, e tu sei un mercenario. Mi devi cedere il coniglio.”

Con quest'ultima frase ha rinunciato alla sua parte della cena. “Io non devo niente, Ser Damien. E, se ti avvicini allo spiedo, giuro che lo userò come uno stocco per perforarti il cervello. Stai calmo, seduto e, soprattutto, in silenzio. Forse te ne avanzerò un po'.”

Il pomposo damerino è ferito nell'orgoglio ma è decisamente in carenza di energie quindi si quieta e si siede su un tronco marcio di fronte a me. È buona cosa tenere il falò tra noi due, finché non capiamo come collaborare per uscire da questo labirinto di alberi.

I minuti passano, non riesco a rendermi conto di quanto tempo sia trascorso da quando siamo finiti qui. Il coniglio è pronto, prendo lo spiedo e con il primo morso ne stacco una abbondante porzione. Ser Damien guarda in giro, probabilmente per non farsi venire più appetito o per non farmi capire che è terribilmente affamato. Più probabilmente, entrambe le cose. È sicuramente uno dei conigli più piccoli e insipidi che abbia mai mangiato ma, vista la situazione, lo considero come un sontuoso banchetto nuziale. Gli avanzo una zampa giusto per evitare ritorsioni durante la notte.

Il giovane cavaliere si avventa sul povero coniglio in modo poco consono al suo lignaggio. Aveva più contegno il mio lupo quando gli davo un po' di carne dopo giorni di caccia magra. Non ringrazia, ma me lo aspettavo.

Osservo il suo scudo, appoggiato sull'albero alle sue spalle. Un pregiatissimo pezzo di acciaio, non c'è dubbio. Il rilievo del drago a due teste è d'oro puro, sicuramente frutto dell'opera di una mano molto abile. Con il metallo di cui è composto ci si potrebbe comprare foraggio e verdure necessari ad un grosso villaggio per anni. È ancora intonso, non ha mai parato un colpo da quando è stato forgiato. Sono piuttosto sicuro che il suo padrone non abbia ancora dovuto neanche preoccuparsi di sollevarlo per difendersi.

Qual è il tuo nome, mercenario? Presentati!”

La fame addomestica anche i soggetti più tediosi; mi pento già di aver sprecato quella zampa per lui.

Il mio nome è Tyrus Mantobuio. Ero nella compagnia assoldata dai Salissori; hanno due serpenti avvinghiati su una torre sul blasone di famiglia.”

Ah! Eri dunque nella fanteria di mio zio! Quando gli farò sapere come ti sei comportato in questo bosco infernale, ti farà...”

Non mi va di attendere la fine della frase per dargli una lezione. Prendo il coltello ancora sporco del sangue del coniglio e glielo lancio addosso. La lama si porta con sé un piccolo pezzo del suo orecchio prima di conficcarsi nel tronco dietro di lui, poco sopra il suo preziosissimo scudo.

Ser Damien spalanca gli occhi in mia direzione, non aggiunge parola.

Si ricorderà di non provare più a minacciare un mercenario, fintanto che non abbia con sé una numerosa guardia personale ben addestrata.

Tra soldati si discute con il ferro. Noi, mio lord, non perdiamo tempo a minacciare.” Rispondo fissandolo dritto negli occhi, lo sottometto come facevo con Zanna Grigia quando mi sfidava ringhiandomi contro.

Il giovane cavaliere trattiene a stento le lacrime e si volta, fingendo di non provare dolore. Borbotta qualcosa contro di me e si corica sul muschio, strozzando per quanto possibile i suoi singhiozzi.

Questo bisticcio sembra lo abbia sconvolto parecchio, ma scommetto che, se ne avesse l'occasione, andrebbe a raccontare a qualche giovane nobildonna una colorita storia di battaglie sanguinarie per sfoggiare con orgoglio quella ridicola ferita.

Io non dormo, non ci riesco in questo posto. Ancora cerco di capire come siamo capitati qui, in questo sconosciuto bosco immerso nel buio perenne. Un'istante eravamo in un campo di battaglia a lottare alla luce del giorno e nel tempo di un battito di palpebre, ci troviamo da soli in un luogo che ricorda un incubo. Accendo una torcia improvvisata con degli stracci, metto un ceppo sul fuoco e decido di fare un giro qui intorno, almeno fino a dove riesco ancora a vedere il bagliore del falò. Il terreno è brullo e molto umido, ogni albero che vedo è completamente spoglio e fatico a camminare tra terriccio e pietre che non riesco a vedere. La cosa che più mi inquieta di questo posto non è la mancanza di luce, né la tipica apparenza da fiaba grottesca che si racconta ai bambini per tenerli lontani dai boschi. Già, la cosa peggiore è la totale mancanza di suoni. Non ci sono uccelli, non c'è vento, non c'è niente. Qualche roditore salta fuori dalla tana solo per stupirsi quanto me della mia presenza per poi rientrare troppo velocemente perché riesca a catturarlo. Gli insetti non mancano, cosa piuttosto logica visto che non ci sono uccelli. Se dovessi cibarmene, non sarebbe la prima volta.

Proseguo a camminare in linea retta tra due gruppi di alberi, in modo da poter vedere ancora l'accampamento. Cerco un'altura rocciosa nelle vicinanze ma non ne scorgo alcuna. Gli alberi sono visibilmente morti e altissimi, per vedere qualcosa dovrei arrampicarmi parecchio, rischiando di far cedere qualche ramo sotto i miei piedi; rinuncio quindi all'idea. Ormai deluso dalla mia breve escursione, decido di ritornare al falò. Mi volto nella direzione opposta e... Non vedo più la luce! Accidenti, quell'idiota deve aver spento il fuoco rotolandoci sopra. Poco male, mi basterà seguire le mie stesse impronte stampate in questo pantano.

Illumino il terreno con la torcia e quasi mi esce il cuore dal petto nel vedere che sto camminando sopra delle piastrelle di marmo pregiatissimo. Rialzo la testa e scopro di trovarmi dentro la stanza di un maniero, o un castello. Ormai la logica sembra aver abbandonato la mia mente; sono sotto un incantesimo? Sono posseduto da qualche blasfema creatura? Mi asciugo il sudore dalla fronte e riprendo, per quanto possibile, le redini dei miei pensieri. Decido di capire dove mi trovo. Con la torcia, accendo i candelabri appesi sui muri e comincio a osservare ciò che mi circonda. Sembra tutto abbandonato da anni: polvere e ragnatele ricoprono ogni cosa che il mio occhio scorge. Gli odori di muffa e umidità ricordano molto l'ambiente della buia foresta dove mi trovavo poco fa. I quadri appesi alle pareti sono enormi, incorniciati da telai di raffinato metallo impreziositi da fantasie che ricordano le ali artigliate di un drago. I soggetti raffigurati sono membri di una famiglia nobile. Su uno vi è dipinto il ritratto del patriarca: un viso austero, paffuto e circondato da boccoli biondi. Una tipica faccia da imbecille aristocratico.

Su un altro dipinto vi è ritratta la famiglia al completo: una giovane donna, anzi, a guardare meglio, una ragazzina di non più di quattordici anni, seduta sul trono con intorno quella che sembrerebbe essere la sua prole. I due bambini sono grottescamente deformi: uno di loro ha una testa esageratamente grossa, con gli occhi asimmetricamente posizionati ai lati di un naso minuscolo; l'altro sembra sprovvisto di mascella, con l'arcata dentaria superiore che sporge al di fuori della bocca. Il patriarca è lo stesso, con una parrucca diversa e con un'espressione viscida, lasciva piuttosto che austera. Lo sguardo della ragazza, invece, è assente, quasi rassegnato. Mi immagino la mano nascosta dell'uomo tenere una daga pronta a conficcarsi nel collo della giovane seduta in posa per il ritratto.

Mi sposto verso destra, accendendo altri due candelabri per illuminare la parete. Vedo un quadro di famiglia più recente del primo: la ragazza, stavolta, è ritratta su una sedia a rotelle e ha ancora meno di vent'anni. Il bambino con la testa enorme non c'è più, e il ragazzino senza mascella posa al fianco della madre indossando un farsetto con il collo alto per nascondere blandamente la sua deformità. Il padre è a fianco, seduto su un trono di legno, e sembra decisamente più invecchiato rispetto al primo dipinto. Se per la ragazza sembrano essere passati cinque anni, per lui avrei detto trenta.

L'ultimo ritratto rappresenta il patriarca e la giovane, ormai donna, seduti su una accanto all'altro. Lui siede sul trono di legno con gli occhi chiusi e il capo leggermente chino da un lato. Lei, seduta sulla sedia a rotelle, fissa l'osservatore del quadro in modo inespressivo. La trovo radiosa, in qualche modo, nonostante il suo sguardo vitreo. L'aspetto dell'uomo è visibilmente trasandato: una leggera barba incolta dà una punta di bianco alla pelle del viso già di per sé molto pallida. La parrucca non copre più i pochi ciuffi di capelli, anch'essi bianchi, disordinati e sfibrati come ciocche di paglia marcia. Il viso ricorda a malapena quello dell'uomo immortalato nel primo quadro. Non è più l'austero nobile in sovrappeso, è l'immagine della sua salma, decenni dopo la sua morte. La donna mantiene l'aspetto di una nobile di mezza età, ancora avvenente, sebbene si possa notare l'effetto degli anni trascorsi attraverso le rughe sul viso. Noto una deviazione del naso che non avevo riscontrato negli altri quadri. Non mi sorprende affatto, ho visto innumerevoli volte i risultati delle percosse di un marito sul viso della propria moglie. A differenza del patriarca, tuttavia, la donna è impeccabile: nel ritratto mostra i capelli raccolti come una regina in eventi mondani. Il vestito di velluto blu è pregiatissimo, quasi sicuramente nuovo, e si adatta perfettamente alle generose forme della donna. I gioielli che porta al collo brillano come se fossero lì davanti a me anziché essere una mera raffigurazione su una tela. Il ragazzino senza mascella non c'è più.

Proseguo imboccando un corridoio appena fuori dalla stanza. È molto buio, i candelabri sono distanti tra loro e non si riesce a scorgere il fondo in nessuna direzione. Mi dirigo a destra, dove mi sembra di vedere un po' più di luce, sebbene il locale sia avvolto da un'oscurità quasi impenetrabile. Illumino il tappeto sotto i miei piedi: il colore principale è verde, di un tono brillante, con dettagli dorati alle estremità. Al centro del percorso è ricamata una coppia di grifoni blu, contrapposti, con una ruota dentata tra loro. Il disegno non mi offre alcuna informazione utile sul castello in cui mi trovo. Proseguo nell'esplorazione, notando che, man mano che avanzo, il tappeto si fa sempre più logoro sotto i miei passi. Dietro di me non si scorge più alcuna luce, mentre davanti riesco a vedere solo un metro e mezzo di tappeto e un candelabro ogni dieci metri. L'aria è satura di un odore fetido, un tanfo nauseabondo che ricorda una vecchia cantina umida, misto a carne in decomposizione. Più cammino, più l'odore si fa simile a quello disgustoso dei campi di battaglia una settimana dopo la fine dello scontro. Mi sento spossato e sonnolento. Gli occhi mi bruciano a causa di un'esalazione acre e indefinibile che si è aggiunta al già intricato mosaico di odori. Tossisco forte, fino a farmi male, e sento il sapore ferroso del sangue risalirmi in gola, arrivando fino alla lingua. L'umidità e il calore del corridoio sono insopportabili, e l'idea che la situazione peggiori a ogni passo mi fa pensare che non vedrò mai la fine di questo incubo. Alla mia sinistra scorgo una porta. Non ho idea di cosa ci sia dietro, ma mi rassegno all'incertezza: quale delle mie prossime scelte mi condurrà alla salvezza, alla follia o alla morte? Apro la porta e attraverso la soglia, cadendo rovinosamente. Il pavimento non frena la mia caduta; inspiegabilmente mi sento rotolare giù da una china erbosa. Mi fermo con la faccia a terra, respirando l'odore dell'erba fresca. Il sollievo che provo non mi tranquillizza: non riesco più a dare un senso a ciò che vedo, ormai completamente preda di inspiegabili illusioni. Mi torna in mente Derekin Testa di Ferro, il vecchio mercenario che delirava frasi sconnesse ogni volta che si ritrovava senza una pinta di idromele in mano. La sua faccia di cuoio stropicciata mi è rimasta impressa nella memoria. Si diceva che avesse combattuto più battaglie di chiunque altro, e non era difficile crederci, visto com'era ridotto. Ricordo che cominciò a vedere i fantasmi dopo essere stato colpito alla testa da un trabucco. Il suo elmo si era deformato così tanto che nessuno riuscì più a rimuoverlo. Ho stampata nella mente l'immagine di quel povero diavolo quando riprese conoscenza, e il lavoro che ci volle per aprirgli un varco nell'elmo, in modo che potesse bere e mangiare. Quel colpo non avrebbe dovuto lasciargli scampo, eppure si rialzò dopo due giorni, anche se era completamente diverso da prima. Non è così che un guerriero dovrebbe vivere. È vero che non desideriamo la gloria, ma è sempre meglio morire che passare il resto dei tuoi giorni a pisciarti addosso e farneticare assurdità. La cosa mi terrorizza, perché continuo a chiedermi se sono diventato come lui. Mi rialzo a fatica. Sento il rumore di zoccoli, il clangore di spade, le urla della battaglia. Sono di nuovo nel mezzo dello scontro? Mi volto e vedo i miei compagni che caricano nella mia direzione. Sono proprio in mezzo al combattimento! La torcia che stringevo in mano è diventata una spada, la mia spada! Istintivamente carico in direzione opposta, assecondando la follia che sto vivendo.

Con un fendente deciso taglio la punta della picca che cercava il mio collo, prendo l'estremità recisa e strattono il cavaliere che la impugnava fino a farlo cadere ad un passo da me. É giovane, inesperto. Ha commesso l'ultimo errore della sua vita. Piazzo la punta della mia spada per due spanne attraverso la cotta sentendo il filo della lama che si fa largo tra le costole, fino ai polmoni. Il ragazzo tossisce sangue per un istante, fissandomi impotente. L'espressione carica di odio si trasforma in disperazione e, infine, ogni emozione si dissolve in vacuo sguardo. Ho visto gli occhi spenti di soldati caduti così tante volte che non sarei in grado di contarle.

Estraggo l'arma appena in tempo per deviare la palla di un mazzafrusto scagliata ad una velocità impressionante. Pochi istanti più tardi ed ora avrei un blocco di ferro all'interno del mio cranio. Per un istante penso ancora una volta a Derekin Testa di Ferro. Mulino la spada verso il soldato ma trovo solo il suo scudo a deviare il mio fendente. É un uomo forte, molto agile nonostante sia un colosso dalla mole impressionante. Si muove come un vero maestro d'armi, non come quei mercenari improvvisati che si rifugiano nelle retrovie aspettando di saccheggiare i cadaveri a battaglia finita. É dannatamente bravo. Schivo il mazzafrusto facendo un passo verso la guardia interna del mio avversario. Mossa stupida, con l'intento di colpire le gambe mi espongo al suo scudo. Prendo una batosta terribile, talmente forte che non riesco neanche a capire dove mi abbia colpito. Barcollo, scivolo, la spada mi sfugge dalla mano. Rimango schiena a terra aspettando che quella maledetta palla di ferro mi dia la lezione finale. Il soldato carica il colpo portando alle spalle il mazzafrusto, in pochi istanti il mio cervello sarà spalmato sul campo di battaglia e fornirà nutrimento ai corvi che più tardi infesteranno questa radura. Vedo qualcosa vicino alla mia mano destra, La punta della picca che avevo reciso si trova a pochi centimetri, la mia unica e ultima speranza! Senza nemmeno pensarci pianto il triangolo di ferro dietro il ginocchio del cavaliere facendolo sbilanciare, il mazzafrusto perde il tempismo e cade debole a una spanna appena dal mio orecchio sinistro. Riestraggo la punta della picca e la ficco dentro l’occhio del guerriero fino a che non smette di urlare. Sono esausto.

Nella mischia della battaglia si apre uno spiraglio; da una posizione rialzata una donna di mezza età osserva il combattimento dedicando particolare attenzione alla mia posizione. La riconosco a fatica ma ne sono certo: è la nobile che ho visto nei ritratti del maniero. Si concentra solo su di me, ignorando completamente la bolgia insanguinata che imperversa davanti ai suoi occhi. Un piccolo cavaliere la affianca in sella ad un pony. La sua armatura sembra quella di un re, azzarderei dire che l’intero armamentario di entrambi gli eserciti non raggiungerebbero il valore di quella pregiata corazza. Un cimiero rosso sventola sopra l’elmo, così come la grossa piuma d’aquila usata come fermaglio per il pesante mantello verde. Tutta la corazza sfoggia splendidi dettagli impressi con acquaforte, sulla placca pettorale è rappresentato un drago a due teste.

Il blasone di Ser Damien.

L’elmo di quel fanciullo è strano, la celata non si abbassa oltre il naso e la protezione del collo è molto arretrata. All'improvviso mi ricordo anche di lui, il bambino dei quadri al maniero. Il fanciullo senza mascella. Aguzzo la vista verso la loro direzione in modo da scorgere una zona libera da schermaglie; i due sono in uno spiazzo rialzato, una specie di tumulo erboso. Alle spalle hanno le tende da campo, adornate con vari stendardi appartenenti a varie famiglie dalla loro fazione. Da una tenda esce un giovane paggio, guarda caso si tratta di ser Damien. Quel ridicolo damerino cammina impettito come se avesse una picca nel culo, si dirige verso una botte di rovere per riempire di vino una coppa argentata.

Altro che ser, è un cazzo di coppiere.

Si avvicina ai due versando del vino alla donna e porgendo al ragazzino una borraccia di cuoio cotto simile alle sacche da pasticcere, probabilmente un contenitore creato apposta per sopperire alla sua menomazione. Attorno a me la battaglia continua ad imperversare, ogni angolo del campo è cosparso di cadaveri di soldati e cavalli, armi spezzate o abbandonate dalle mani dei caduti. La fanteria dei Salissori avanza nella mia direzione preceduta da un manipolo di cavalieri sopravvissuti all'ultima carica, si uniscono alla nostra squadra donandoci un vantaggio numerico schiacciante. Un giovane soldato cerca di scappare ma viene centrato in piena schiena da una lancia, si accascia senza vita praticamente ai miei piedi. Gli estraggo la lancia aiutandolo a morire più in fretta e mi avvio verso il tumulo dei nobili ai confini del campo. Inciampo un paio di volte tra fango e cadaveri ma riesco a portarmi ai piedi del tumulo, salgo a fatica chiedendomi perché lo sto facendo. Chi sono quelle persone? Cosa è reale? Sono ancora nel bosco? Sono nel maniero? Sono in battaglia? Non ho la minima idea di cosa aspettarmi ponendomi davanti ad una famiglia di nobili e uno sguattero che si era spacciato per un cavaliere in uno dei miei incubi. Vedranno un pazzo o un disertore che vuole fargli del male, nella migliore delle ipotesi. Il terreno non è migliore del campo di battaglia ma almeno non devo preoccuparmi di frecce o attacchi e posso avanzare senza intoppi fino alla cima. Sono ormai a pochi metri; alzo lo sguardo e vedo Damien, il finto cavaliere, piantare una daga nella schiena del bambino deforme. Non riesco neanche a realizzare cosa sto vedendo, e vedo la madre agonizzante mentre subisce la stessa sorte. Non so perché ma sto correndo verso di loro. Non è per salvarli. Non è per compassione. Forse è solo la mia mente che cerca disperatamente un senso, una risposta a questo caos. Al limite del mio equilibrio scaglio la lancia in direzione del vile Damien prendendolo in pieno petto.

Scivolo sull'erba intrisa del sangue della madre e del figlio e cado, senza trovare il suolo, in una discesa senza termine, come se la terra di me si fosse dissolta in una nuvola oscura.

Vedo sprazzi di una vita che non mi appartiene. La nobildonna, giovane e appena sposata sigla un patto con una creatura diabolica. L'orrido mostro chiede un compenso che gli viene negato. Maledice la donna e la sua prole. Il marito invecchia ma lei no, sopravvive all'incubo di un orribile matrimonio solo per vedere uno dei suoi figli morire poco dopo il padre.

Continua la mia discesa nel vuoto, non sento più nulla. Non sento più il clangore delle lame nella brughiera insanguinata, non percepisco l'acre odore di morte nel mio respiro, non c'è luce e non c'è calore. Sento solo l'assenza di peso del mio corpo sospeso in una caduta perpetua. Mi sveglio di soprassalto e mi ritrovo nel bosco nero. Mi guardo intorno per cercare Damien ma dall'altro lato del falò non c'è. Sul tronco di fronte, al suo posto, siede la nobildonna, giovane e bella come il primo ritratto che vidi nel maniero.

Un'irreale ombra si erge alle sue spalle, proiettata sull'albero dalla luce tremolante del bivacco. Riconosco il profilo della creatura demoniaca, una testa di capro alta e spaventosa si anima come avesse vita propria. L’ombra si contorce, agitandosi come se cercasse di spezzare un legame invisibile. Le sue corna sembrano graffiare l’aria stessa, agitandosi rabbiosamente in una vivida ed iraconda frustrazione. Non riesco comunque a capire se sto vedendo un prodigio malefico o se stia subendo la suggestione provocata da un gioco di luci del falò. La convinzione di trovarmi in un incubo è sempre più concreta e allo stesso tempo labile.

Tyrus Mantobuio, il mio campione. Il mio salvatore.”

Mia signora, mi dispiace dire di non conoscervi, sebbene percepisca una profonda affinità con lei... Tuttavia...” La ragazza mi sorride, per qualche ragione. “...non ho salvato neanche me stesso a quanto pare.” “Non è così. Avrai la tua ricompensa, mio campione.”

Un letto di foglie secche scricchiola sotto la mia schiena. Mi giro a fatica, debole come se fossi convalescente da un lungo malanno. Intorno a me riconosco il maniero maledetto, ma è in condizioni terribili, come se fosse abbandonato da 10 secoli. Ora lo vedo chiaramente in ogni suo dettaglio perché non sono più immerso nel buio. Sopra la mia testa scorgo ciò che rimane del tetto: poche travi, consumate da termiti e umidità, sostano in precario equilibrio tra le vetuste pareti. Il sole penetra attraverso il gigantesco foro nel palazzo, illuminando il salone in cui mi trovo. Le mura sono ridotte a poche, vecchie macerie, tanto da permettere alla foresta di insediarsi in quello che un tempo era un dominio degli uomini. Quella in cui mi trovo era la stanza dei ritratti, la riconosco, ma non vedo più i quadri su quel poco di parete che ancora si erge tra il marmo e la vegetazione. Il sole illumina un pertugio alla base del muro di fronte a me, e qualcosa nel pavimento luccica talmente tanto da non poter passare inosservato. Prendo la spada e, facendo leva tra le intersezioni, sollevo il mattone che nasconde l'origine del riflesso. Un bagliore dorato mi acceca per un istante: il meraviglioso scudo con il drago a due teste brilla come se fosse appena uscito dalla forgia. Chili di monete e gioielli preziosi sommergono il pavimento di una piccola stanza nascosta.

La nobile dama è stata di parola.

Passarono molti anni da quella strana esperienza, e ringrazio ogni giorno gli dèi che mi hanno permesso di invecchiare senza dover rivivere quelle orribili sensazioni. Il tesoro del Colle dei Draghi mi ha concesso una lunga vita agiata, lontano dai campi di battaglia. Ho avuto moglie, figli e terre, tutto ciò che avrei mai potuto desiderare. Di tanto in tanto torno nei luoghi della mia gioventù, in quelle che un tempo erano taverne da mercenari, dove si beveva e si combatteva, quartieri trasandati in cui non potevi girare un angolo senza imbatterti in una prepotenza o in un atto indecente. Parte della mia fortuna l'ho impiegata per restaurare questi luoghi, che ritengo, almeno in parte, responsabili del percorso che mi ha portato alla ricchezza.

Mi avvicino incuriosito alla vetrina di un rigattiere, notando un uomo singolare fermo immobile di fronte agli oggetti in esposizione. Un sussulto mi coglie senza preavviso quando riconosco Derekin Testa di Ferro, o ciò che ne rimane. Non ricordo più come fosse il suo viso, ormai fuso alla corazza che non fummo mai in grado di togliergli. Dal foro che riuscimmo a praticare nell'elmo cola un filo di bava, lungo fino alla cinta; lo sguardo, totalmente assente, fissa vacuamente un quadro all'interno della bottega. Lo osservo anch'io.

Una cornice di raffinato metallo, impreziosita da fantasie che ricordano le ali artigliate di un drago.

Lo sguardo terrorizzato del soggetto raffigurato trasmette un'indescrivibile angoscia. Il ritratto di Damien l'impostore, con una lancia conficcata nella spalla.

Un vile assassino, circondato da una foresta nera in una notte perpetua.

Un orecchio menomato dalla ferita di un coltello.


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